venerdì 19 maggio 2017

I distillati

-Tecnica della distillazione

-Produzione

-Ammostamento

-Maltazione

-Cottura e saccarificazione

-Fermentazione alcolica del mosto saccarificato

-Distillazione

-Prima di imbottigliare

-Maturazione e invecchiamento

-Degustazione dei distillati

-Tipi di bicchieri

-La giusta temperatura

 

  La Distillazione:  

Il termine “distillazione” deriva dal latino destillatio, dove il prefisso de indica un movimento verso il basso, mentre la parte rimanente della parola, stillatio, significa stillare, far evaporare un liquido. Dunque la distillazione serve a separare, mediante l’azione del calore, le parti più evaporabili (o per meglio dire, volatili) da una parte liquida o solida contenente del liquido. I distillati, in pratica, sono miscele di acqua e alcol ottenute dalla fermentazione di alcune materie prime, tra le quali cereali, vino, vinacce, canna da zucchero, patate,  bacche di ginepro e frutti vari. Tali ingredienti vengono fatti fermentare al fine di ricavare da essi alcol, che viene successivamente distillato, cioè separato a caldo dalla maggior parte dell’acqua e delle altre sostanze che costituivano il prodotto stesso. In questo modo si ottengono i distillati, ovvero bevande superalcoliche la cui aromatizzazione dipenderà dalla materia prima impiegata per realizzarle .Ovviamente, ciascuna area geografica del mondo ha sviluppato la distillazione partendo dalle materie prime che la natura le metteva a disposizione. Nell’Europa settentrionale, ad esempio, dove il clima era ed è favorevole alla coltivazione del luppolo e dei cereali (così come nelle pianure dell’antica Mesopotamia e dell’Egitto) piuttosto che dell’uva, si ottengono distillati da altri frutti: dalle mele (il Calvados), dalle prugne (lo Sliwovitz), dalle ciliegie (Kirsh). Nelle stesse zone sono fermentati e distillati anche cereali che danno origine al Whisky e al Gin, per non parlare delle patate, dalle quali si ottiene la Vodka. Nell’America del Sud, dall’agave si producono la Tequila e il Metzcal. In Messico viene distillata la linfa fermentata del cactus; in India sono fatti fermentare e distillare alcuni fiori.
  

 Un pò di storia                 

L’arte della distillazione è antica quasi quanto l’uomo ed è piuttosto difficile, se non addirittura impossibile, risalire con certezza alla sua origine; si possono solamente fare delle ipotesi, più o meno verosimili, in cui spesso prevale la mitologia sulla realtà.
La distillazione era già nota agli antichi Egizi; in uno scritto risalente al IV secolo a.C. sono descritti alcuni apparecchi distillatori reperiti in un tempio di Menfi. Ad Alessandria d’Egitto si distillava la resina di pino per ricavare olio di trementina. In pratica, quindi, la prima distillazione consisteva nel porre delle sostanze come la resina sopra una superficie calda; così, racconta Plinio, si preparava la resina dai bioccoli di lana. D’altronde Aristotele scrive che “l’acqua del mare può essere resa potabile distillandole il vino e altri liquidi possono essere sottoposti al medesimo processo e, dopo essere stati convertiti in vapori umidi, ritornano allo stato liquido”. Era circa il 350 a.C.

Allontanandoci un poco geograficamente scopriamo che anche indiani, tibetani e cinesi fabbricavano bevande alcoliche: in particolare il santciù, nel 3500 a.C., era un distillato cinese derivato da riso e miglio. Secondo alcune scuole di pensiero la distillazione è stata scoperta proprio in Cina. Bekmann scrisse che “la scoperta dello spirito di vino – cioè l’alcol – appartiene a quelle che ebbero più varia ed estesa influenza: come la scoperta della scrittura, del denaro, della polvere, della bussola e della stampa. Essa ha creato nuove arti, nuove industrie e altre ne ha rinnovate e allargate. Ha dato agli scienziati un nuovo mezzo di ricerca delle proprietà di molti corpi. Essa ha portato alla fabbricazione di medicine salutari”. Altre bevande alcoliche furono preparate dai Tartari, popolazioni caucasiche e giapponesi nello stesso periodo. I Romani conoscevano la distillazione, ma la utilizzavano unicamente a scopo medicinale e per produrre essenze profumate. Edward Gibbon, nella sua opera The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, narra che nel 448 d.C. un tale Massimino trova, presso gli Unni, “un certo liquore, camus,che secondo Prisco era un distillato d’orzo”. Pare che in Europa il processo di distillazione sia stato importato dagli Arabi quando invasero la penisola iberica nel VII secolo; secondo altre fonti, tuttavia, gli Arabi portarono la distillazione nel 1150, benché vi siano documenti, seppure alquanto generici, secondo i quali i monaci camaldolesi producevano distillato di vino già attorno all’anno 1000. Una controprova di tale affermazione proviene dalla medichessa Trotula che, proprio attorno all’anno 1000, indicò l’utilizzo dell’acquavite a scopi curativi. Tale situazione diede un impulso alla ricerca di alambicchi più idonei per avere una maggiore qualità del prodotto; fino a quel tempo occorreva, infatti, effettuare varie distillazioni per concentrare sufficientemente l’alcol, in quanto non era impiegato il refrigerante. Questo venne introdotto nelle apparecchiature solamente nel XIV secolo da Taddeo Alderotti, che ideò un alambicco dal lungo collo che attraversava una botte di acqua fredda: in questo modo si ottenne un’acquavite che, non solo corrispose agli usi medicamentosi, ma risultò anche piacevole al gusto. Da allora divenne sufficiente una sola distillazione per ottenere una buona concentrazione alcolica e il prodotto divenne anche più economico grazie al risparmio di tempo. La derivazione del termine alcol è indubbiamente araba:al, infatti, fu il suffisso arabo posteriore, mentre cohol indicava una polvere finissima impiegata dalle donne egiziane per truccarsi gli occhi. Arnaldo da Villanova, nato fra il 1238 e il 1314 in Spagna ed educato in Sicilia, imparò dagli Arabi la distillazione, oltre alle scienze matematiche. Egli distillò il vino, dandogli nomeeau-de-vie (in quel periodo operava ad Avignone) oaqua vitae: era nato il Brandy. Tuttavia il termine alcol venne utilizzato per la prima volta da Raimondo Lullo, un allievo del Villanova. In generale furono i monaci a impiegare la distillazione del vino, dei cereali e di vari infusi. A scopo soprattutto medicamentoso, agli stessi monaci si deve anche la produzione del famoso Bénédectine presso l’abbazia di Fécamp e il liquore Chartreuseche i monaci certosini produssero a Voiron, presso Grenoble.

Evoluzione dell’alambicco:
Nel XV secolo furono realizzati i condensatori a serpentina posti entro una vasca di raffreddamento, con notevole vantaggio per la produzione. Se il clima temperato favorevole alla viticoltura mette infatti a disposizione il vino e le vinacce, non dobbiamo dimenticare che il contributo umano alla produzione di distillati è fondamentale, a partire dall’alambicco (parola derivata dall’araboal embic), strumento perfezionato dagli Arabi nel XVI-XVII secolo per ricavare oli essenziali e liquidi alcolici a uso medicinale.
L’alambicco è costituito da tre parti principali.
•  La caldaia o cucurbita (cosiddetta a motivo dalla sua forma) che contiene il liquido da distillare ed è esposta alla sorgente di calore; da essa esce il vapore. Vi sono alambicchi a bagnomaria dotati di una doppia caldaia munita di intercapedine, che viene riempita d’acqua o di olio, che vengono riscaldati per alimentare il calore che provoca il riscaldamento della sostanza fermentata dalla quale fuoriesce l’alcol; altri alambicchi sono riscaldati a fuoco diretto, ma i più recenti, assai più semplici da utilizzare, sono riscaldati da generatori di calore dettiscambiatori di calore.
•  Il duomo (o capitello o elmo) a forma emisferica posto sopra la caldaia; esso è il tramite che consente il passaggio del vapore dalla caldaia al mezzo raffreddante.
•  Ilcondensatore,che parte dal duomo ed è un tubo raffreddato o una serpentina immersa in acqua fredda; il vapore in questa parte dell’alambicco si raffredda e condensa.
Nel VII secolo si utilizzava un alambicco detto “testa di moro”, opera del francese Dejan, cioè una coppa in rame chiusa da due parti convesse, di cui una condensava il vapore e l’altra prelevava il distillato inviandolo al recipiente di raccolta.
Nei secoli XIII e XIV gli alchimisti studiarono le basi del moderno alambicco: per eliminare, seppure in modo grossolano, la testa e la coda  del distillato facevano confluire i vapori chiudendo progressivamente il recipiente di base in modo da ottenere un solo sbocco dove i vapori venivano condensati in maniera adeguata, mediante un idoneo sistema di refrigerazione ad aria.
Nel XVI secolo Giambattista Della Porta descrive in modo preciso un alambicco in grado di trattenere le fiammate e capace di produrre un’acquavite leggera “come il fumo”. In questo stesso secolo, Evonino Filiatro descrive l’utilizzo di unlambicco con i vasi affiancati (e non sovrapposti) collegati da una storta (che è un tubo di vetro opportunamente ripiegato; il fatto curioso è che il riscaldamento non avviene per mezzo del fuoco, bensì tramite il sole, che viene riflesso e concentrato da una serie di sfere di cristallo). Una delle questioni che nel tempo è stata oggetto di maggiori modifiche e perfezionamenti è stata sicuramente quella della refrigerazione. Filippo Ulsted di Norimberga racconta, nel XVI secolo, di utilizzare un refrigerante molto lungo con lo scopo di migliorare il prodotto dal punto di vista qualitativo.Nel 1750 si impiegarono acqua e stracci bagnati per raffreddare i vapori. Nel periodo rinascimentale si fabbricano alambicchi simili a quelli in uso oggi, anche se non ancora di tipo continuo (questi ultimi vedono la luce nel XIX secolo, a opera di un certo Adam, operaio di Montpellier). Più precisamente è nel 1817 che, in Germania, Pistorius fabbrica un alambicco in un solo pezzo, ovvero un alambicco che effettua la distillazione, la deflammazione e la rettificazione con caricamento in continuo, cioè senza svuotare la caldaia per riempirla ogni volta che il vapore ne esce. Infine si intuì il vantaggio di costruire gli alambicchi di vetro e rame, materiali che non cedono odori e sapori al distillato e non sono fragili come il vetro. Nel 1813, a opera di un certo Baglioni, venne ideata la colonna di distillazione, che permise un ulteriore risparmio e allargò la gamma dei consumatori: grazie a tale innovazione, infatti, fu possibile distillare qualunque materia fermentata, come per esempio le patate. La colonna di Baglioni consentiva di distillare e rettificare numerose volte un dato distillato, tanto che attorno alla metà del XIX secolo un certo Schmit commercia una Vodka distillata ben dodici volte.
Da medicinale a bevanda
Una volta generati i distillati, non si tardò a valutare anche le qualità organolettiche di queste bevande, dissociandole così dall’ambito strettamente medico e cercando di migliorarne ulteriormente le caratteristiche olfatto-gustative. Per conservare tutta la fragranza aromatica della Grappa, ad esempio, fu proposto di distillarla sotto vuoto in modo da non eliminare determinati composti volatili dal gradevole odore: il primo a proporre questo metodo fu Comboni verso la fine del XIX secolo; il sistema venne poi ripreso negli anni Settanta del XX secolo. Tuttavia si notò che la Grappa diventava troppo “gentile” a causa della perdita di una certa quantità di aromi, benché altri fossero protetti dall’utilizzo di temperature non troppo alte. Oggi, specialmente in Trentino, si effettua la distillazione in continuo della vinaccia (nel distillatore la materia prima viene immessa senza sosta nell’impianto e sottoposta a un flusso di vapore che estrae le componenti volatili), seguita dalla distillazione delle flemme (residui dal sapore non proprio gradevole) con alambicco a bagnomaria; ma tale lavorazione comporta la cessione di composti pesanti e sgradevoli presenti nelle flemme: per ridurre al minimo questo inconveniente si è pensato di refrigerare le flemme (che in tal modo non irrancidiscono), separandone le impurità tramite la filtrazione.Così facendo, all’alambicco a bagnomaria perviene flemma con elevata concentrazione di composti nobili; in questo modo si è eliminato quasi del tutto il processo di rettifica. Occorre annotare, infine, che dall’alambicco esce un distillato contenente il 71-75% di alcol, che conserva ancora gran parte dei suoi composti odorosi piacevoli dal punto di vista organolettico. Sempre allo scopo del miglioramento qualitativo, nel tempo si è compresa l’importanza dell’invecchiamento dei distillati in contenitori di legno: piccole botti che ne esaltano i profumi.

Tecnica della distillazione:

   La distillazione consiste in un’operazione fisica che permette di separare i vari costituenti di una miscela (nel nostro caso idroalcolica). Per fare un esempio semplice e chiarificatore, si ponga il caso di avere una miscela di acqua con alcol etilico, alcol metilico e un tipo di alcol butilico. Desiderando separare i tre alcoli dall’acqua, occorre riscaldare la miscela entro un apparecchio distillatore detto alambicco. L’alambicco, nella sua concezione più semplice, è costituito da:
-un contenitore del liquido da distillare (cioè purificare, separandolo dai vari componenti) detto caldaia;
-
una colonna (contenente piatti posti a distanza differente) che viene inserita nella caldaia e che fraziona i vari costituenti del liquido;

-un dispositivo di refrigerazionee un contenitore di raccolta.La caldaia viene riscaldata a fuoco diretto o con vapore per far raggiungere ai vari componenti la loro temperatura di ebollizione.
Lungo la colonna di frazionamento la temperatura non è tutta uguale, ma è sempre meno elevata mano a mano che si allontana dalla caldaia: nei vari piatti, quindi, la temperatura è differente e consente di raccogliere i composti che bollono a quella temperatura.Il liquido di partenza viene quindi separato, cioè frazionato in più punti della colonna: in ogni piatto sono condensati i liquidi che bollono alla temperatura di quel determinato punto (piatto). Ecco perché questo tipo di distillazione è conosciuta come distillazione frazionata, mentre se non ci fossero i piatti si parlerebbe didistillazione semplice. Per inciso, la distillazionein corrente di vaporesi effettua per liquidi il cui contenuto si degrada facilmente con l’alta temperatura, mentre la distillazione a pressione ridotta è applicata per la separazione di sostanze che a pressione normale hanno un elevato punto di ebollizione e per sostanze che prima di raggiungere il loro punto di ebollizione si decompongono.I vari piatti della colonna, quindi, hanno una propria temperatura e in essi avviene una serie di cicli di evaporazione-condensazione. Durante la distillazione avviene quanto segue. Quando la temperatura raggiunge 66 °C l’alcol metilico bolle, quindi evapora ed esce dalla miscela come vapore; il vapore, espandendosi nel distillatore, arriva a una zona dell’apparecchio che è raffreddatae, conseguentemente, viene condensato e ritorna allo stato liquido. Questa situazione continua fin tanto che la miscela contiene questo alcol e purché continui a essere riscaldata alla temperatura di 66 °C; l’alcol metilico – ormai liquido – è raccolto in un contenitore e, pertanto, viene separato dalla miscela; essendo la prima parte separata dalla miscela viene chiamata testa. Aumentando la temperatura di riscaldamento della miscela si raggiungono 78,3 °C, che è la temperatura di ebollizione dell’alcol etilico; ovviamente questo alcol si comporterà come il precedente; in pratica i suoi vapori escono dalla miscela e, quando arrivano nella zona fredda del distillatore, si trasformano in liquido; questo può essere raccolto e separato dall’acqua; essendo la parte centrale della separazione, questa è chiamata cuore Proseguendo il riscaldamento si raggiungono 83 °C, temperatura di ebollizione dell’alcol butilico che, come gli altri due alcoli, viene separato; questa, essendo la parte finale, si definisce coda. È questa la distillazione frazionata, in quanto attraverso tale procedimento vengono separati vari componenti di una miscela liquida. I prodotti della distillazione escono dall’impianto in successione a seconda del loro punto di ebollizione: prima quelli che bollono a temperatura più bassa (che ovviamente sono i più volatili, cioè i più facilmente evaporabili) e poi, via via, gli altri. L’esempio proposto può essere sostituito da una miscela ottenuta dalla fermentazione di uno dei prodotti agricoli che ho già citato in precedenza: vino, cereali, frutta, fiori ecc., ed è quanto avviene per la preparazione delle bevande spiritose quali Grappa, Cognac, Brandy, Whisky, Rum ecc.

 

Produzione:
La produzione di un distillato si svolge attraverso numerose operazioni, a partire dalla preparazione de lmosto,sia esso di uva, vino, canna da zucchero, frutta, miele, cereali, tuberi di patata o altri prodotti agricoli, per proseguire con la fermentazione,la distillazione,la stabilizzazionee, in molti casi, con l’invecchiamentoin botti. Indispensabili per la riuscita di queste fasi operative sono: la qualità della materia prima, l’abilità del distillatore, i vari metodi (distillazione continua o discontinua) e strumenti (alambicchi) impiegati per effettuare la distillazione.
Le materie prime utilizzate per ottenere i distillati sono generalmente suddivise come segue:
•  amidacee: amido ricavato dai vegetali;
•  cereali: orzo, mais, segale, riso, frumento;
•  saccarine: in pratica si tratta della melassa, cioè del residuo della lavorazione della canna da zucchero, della barbabietola da zucchero, sorgo ecc.;
•  alcoliche: vinacce e fecce che residuano dalla vinificazione;
•  zuccherine: si tratta quasi sempre di frutta come pere, ciliegie, mele e vari altri frutti ricchi soprattutto di fruttosio.
Ammostamento:
La preparazione del mosto è differente a seconda della materia prima che si utilizza. Per quanto riguarda i frutti, ricchi di zuccheri semplici (fruttosio e glucosio), è sufficiente schiacciarli o macinarli; se invece si parte da cereali o da patate, il processo si complica perché in questo caso lo zucchero è assai complesso ed è amido (che è un polisaccaride, cioè una lunga catena di molecole di glucosio unite le une alle altre), che non può fermentare così com’è. Queste lunghe catene di glucosio devono essere sottoposte all’azione di enzimi specifici che riescono a scindere l’amido prima in maltosio e poi in glucosio; oggi la norma è quella di aggiungere enzimi in modo da garantire il successo dell’idrolisi, cioè la completa scissione in migliaia di molecole di glucosio. Il mosto si prepara con acqua calda o con la cottura in autoclave a pressione controllata, per favorire l’azione degli enzimi.

Maltazione:
Poiché l’amido, che rappresenta circa il 75-80% dei cereali, non è fermentescibile, esso deve essere scisso, cioè idrolizzato, nello zucchero semplice che lo compone: il glucosio. Ad esempio, la trasformazione dell’amido di semi di orzo in zucchero semplice può avvenire secondo vari metodi, di cui il più tradizionale è il maltaggio. A questo scopo si procede al lavaggio della materia prima in appositi tini e le operazioni avvengono nel modo seguente:si lasciano i semi di orzo due o tre giorni in vasche piene d’acqua, in modo che ciascun seme ne assorba il 50% del proprio peso, dopo di che si fanno sgocciolare per avviarli alla germinazione; a questo scopo si pongono nel maltatoio,che è un locale ben aerato, con pavimento impermeabile e dotato di mezzi per il riscaldamento e la ventilazione; i semi bagnati vengono disposti a strati di 20-40 cm sul pavimento alla temperatura di 15 °C. Dopo 10-12 giorni i semi germinano, e ciò è visibile dal fatto che hanno emesso la radichetta. Durante la bagnatura del seme vengono attivati gli enzimi che scindono l’amido in glucosio. Quindi si essiccano i semi per evitare che essi germoglino utilizzando lo zucchero. A questo stadio è stato ottenuto il malto, cioè il chicco di cereale che ha subito germinazione. L’orzo, fra tutti i cereali, è quello che germina nel modo migliore; tuttavia per sottoporlo ai processi successivi occorre che la radichetta abbia raggiunto una lunghezza di 2-3 volte quella del seme.A questo punto, per favorire l’azione degli enzimi, i semi essiccati vengono macinati e la farina ottenuta è posta in infusione, arieggiata e riscaldata alla temperatura di 55-60 °C.
Cottura e saccarificazione: Lo scopo della cottura è quello di completare la solubilizzazione dell’amido e la sua saccarificazione, cioè la sua scissione in zuccheri semplici. Proseguendo con l’esempio dell’orzo, la quantità di malto che viene immessa nel cuocitore è detta cotta ;il cuocitore ha una capacità doppia rispetto alla cotta ed è resistente alla pressione di 5 bar. Il cuocitore viene caricato dal basso, mentre dall’alto viene immesso il vapore, che genera nel contenitore una temperatura di 130 °C circa e sviluppa una pressione di 3-4 bar; se si opera sul cereale intero (e non bagnato), nel cuocitore si immette anche acqua in quantità di 2 ettolitri per quintale di cereale. Lo scopo di questa operazione, abbiamo detto, è quello di completare la solubilizzazione dell’amido e la sua scissione in zuccheri semplici; tuttavia questa scissione non sarà mai completa, residuando sempre una certa quantità di destrine, cioè di corte o cortissime catene di amido. Le condizioni ideali per la migliore riuscita della saccarificazione sono: pH 4,53 a 30 °C oppure pH 5,62 alla temperatura di 70 °C. Attraverso questa operazione si viene a formare un liquido di natura collosa e di colore biancastro, in pratica una sorta di mosto, che ben presto assume una tinta marroncina, acquista odore di malto e contiene qualche parte solida: ilwort. Quando da esso vengono separate le parti solide rimane il wash.

Fermentazione alcolica del mosto saccarificato:
Per la realizzazione dei distillati si rende necessario eseguire varie analisi del mosto per verificarne eventuali carenze che, se riscontrate, devono essere corrette (questa è un’operazione che avviene anche nel caso del mosto d’uva). Il mosto, immesso in tini o tinelli, viene riscaldato alla temperatura di 27-28 °C, per favorire l’azione fermentante del lievito; la temperatura non deve comunque mai superare i 30 °C durante tutto il processo fermentativo. A questo punto il mosto viene addizionato di lieviti selezionati, iSaccharomyces cerevisiaeche, in due o tre giorni, alla temperatura di 18-25 °C producono alcol etilico e varie sostanze secondarie indispensabili alla qualità del distillato. La fermentazione ha inizio lentamente, con scarso sviluppo di gas carbonico; poi essa diventa più attiva – in gergo si dice “tumultuosa” – ed è accompagnata da abbondante sviluppo di gas carbonico; infine la fermentazione rallenta. La percentuale di alcol etilico sviluppato è soprattutto in relazione al tipo e alla quantità di lievito addizionato e, in genere, si forma in una quantità che varia dal 5 al 12% in volume. Altre sostanze si formano nel corso della fermentazione alcolica e sono quelle che vengono rilasciate dal lievito che subisce autolisi, cioè rompe la propria cellula liberandone il contenuto, analogamente a quanto succede nella fermentazione alcolica del mosto d’uva e del mosto per la produzione della birra.

Distillazione:
A questo punto segue, finalmente, il processo della distillazione vera e propria, ovvero quel fenomeno fisico che separa i componenti volatili del fermentato in relazione al loro punto di ebollizione. Riscaldando il fermentato, infatti, i componenti volatili passano allo stato di vapore e poi sono raffreddati affinché condensino in liquidi. Con questi passaggi l’alcol etilico del fermentato si concentra, passando dal 5-12% al 65-94%. In questa fase, inoltre, vengono selezionate le sostanze utili per un distillato di qualità, mentre si eliminano quelle inutili o nocive. In pratica si separa la testa – cioè la prima parte che distilla e che contiene molto alcol metilico – dalla parte finale, coda, che contiene molti alcoli superiori (amilico, butilico, isoamilico ecc.) assai tossici per la salute umana. L’ultima innovazione in fatto di distillazione è la sostituzione del fuoco diretto con il vapore caldo; in seguito a tale novità vengono fabbricati i distillatori a colonna che ormai, almeno in Italia, sono i più diffusi. Oggi si trovano apparecchi con tre caldaie di distillazione (ognuna contenente tre quintali di materia da distillare) collegate in serie per produrre più celermente, cioè più distillato nella stessa unità di tempo. La deflemmazione o rettificazione è un’operazione che si prefigge di eliminare le impurità, aumentando indirettamente la concentrazione alcolica. In pratica la deflammazione consiste in successive distillazioni a partire dal primo distillato che, conseguentemente, si concentra sempre più in alcol etilico. A questo scopo si utilizza un distillatore particolare, detto “a piatti”. Come abbiamo già intravisto parlando più in generale del processo di distillazione, esistono due metodi diversi di distillazione:continua o discontinua. Con il primo metodo la distillazione avviene senza interruzione, a mano a mano che il fermentato è posto nelle colonne sopra la caldaia di rame che è divisa in compartimenti comunicanti. Ogni colonna di distillazione consta di una serie di camere sovrapposte; i vapori alcolici passano da una camera all’altra attraverso un tubo centrale e, così facendo, i vapori cedono acqua e si concentrano in alcol; quindi nella parte più alta della colonna i vapori sono più concentrati in alcol. Per la produzione di Grappa, Vodka, Gin, Rum, Tequila, Whisky, Armagnac e Brandy sono utilizzate due colonne (dette “a torre”). Nel caso della distillazione discontinua, al contrario, si attende l’esaurimento della materia prima, poi si scarica la caldaia e la si riempie con una nuova cotta. Di frequente, con questo metodo, si impiegano gli alambicchi in rame di vecchia foggia, soprattutto per Brandy, Calvados, Cognac, Whisky di malto, alcuni Armagnac e Grappe. In ogni caso la distillazione con impianti discontinui è più lenta e consente una separazione molto precisa dei vari costituenti volatili: in altri termini offre risultati qualitativamente migliori.Le teste sono i primi vapori ricchi di sostanze molto volatili come l’alcol metilico (che è tossico), l’acetaldeide (che conferisce nuance erbacee), l’acetato di etile (che conferisce odore di aceto), acetali e altri, in ogni caso sgradevoli. Proseguendo la distillazione si ottiene il cuore, ricco di alcol etilico e di sostanze, questa volta gradevoli, dagli aromi fruttati. Una volta evaporato quasi del tutto l’alcol etilico, rimangono le code, più pesanti e sgradevoli.Può accadere che piccole parti di code siano appositamente aggiunte al fermentato al fine di uniformare i profumi, ma nella cotta seguente sono distillate e separate in modo che ne restino pochissime. Se il fermentato è ricco di sostanze aromatiche-profumate è bene che sia distillato fino al 65-72% di alcol etilico, perché se si arrivasse ad avere alcol etilico puro, anche queste molecole sarebbero eliminate, con conseguente impoverimento olfattivo del prodotto. Si può produrre Grappa con l’86% di alcol, che è una quantità consentita dalla legge, tuttavia i prodotti migliori non superano il 75%. Scotch Whisky e Cognac, invece, possono essere commercializzati legalmente al 70-72%. Nonostante le possibilità predette, tuttavia, questi prodotti sono diffusi sul mercato con un massimo di 40-45% di alcol, sia perché esso viene successivamente diluito con acqua distillata al fine di limitare la quantità di prodotti di coda, sia per avere un prodotto non eccessivamente alcolico che coprirebbe eccessivamente profumi e aromi.
 

Prima di imbottigliare: Prima di essere imbottigliata, quindi, la maggior parte dei distillati è sottoposta a processi di riduzione (diluizione) del grado alcolico, di refrigerazione e di filtrazione. Il grado alcolico viene diminuito aggiungendo acqua demineralizzata o deionizzata, insapore, inodore e priva di sali minerali che potrebbero dare luogo a intorbidamenti.
La refrigerazione da –10 a –20 °C, per poche ore, serve anch’essa a evitare eventuali intorbidamenti perché condensa le sostanze più pesanti, poi eliminate con la filtrazione. Quest’ultima si avvale di filtri di cellulosa e cotone o alghe diatomee (fossili microscopici) e perliti (rocce frantumate finemente); oppure sono utilizzate membrane microporose.La legge consente un ritocco finale che consiste nell’aggiunta di zucchero (fino al 2%) utile a favorire la persistenza aromatica e a conferire morbidezza; nello stesso tempo il caramello e lo zucchero bruciato conferiscono al distillato un tipico colore giallo paglierino o ambrato, talora apportando percezioni retronasali sgradevoli. Se il distillato è di bassa qualità lo zucchero ne accentua i difetti.
La composizione dei distillati ammessi all’imbottigliamento è dunque caratterizzata da acqua al 40-64%, zucchero per 20 g/l al massimo e alcol etilico per il 36-60%. In essi è presente anche il metanolo, più volatile dell’etanolo e regolamentato con rigore dalla legge (non deve superare la quantità di circa l’1% rispetto all’etanolo) in quanto nocivo. Nello stesso modo è controllata la presenza di alcoli superiori che, se da un lato conferiscono profumo, dall’altro possono rimandare a note di medicinale, e inoltre sono assai nocivi all’organismo umano.
Al fine di ottenere un distillato di qualità è particolarmente importante il contenuto di acidi, esteri, aldeidi, chetoni, terpeniepirazine.
•  Fra gli acidi prevale in genere l’acido acetico, che conferisce una netta percezione pungente che si somma a quella bruciante, pseudocalorica data dall’alcol etilico; mentre gli altri acidi non hanno caratteristiche organolettiche particolari, oltre a quella, beninteso, dell’acidità.
•  Gli esteri influenzano soprattutto il profumo dei distillati giovani, che non derivino da frutti con forti aromi primari come l’uva Moscato e le pere Williams, ma arricchiscono anche il bouquet di distillati invecchiati a lungo in botte o in bottiglia grazie a sfumature di lillà, mughetto, banana, mela, pera, pesca e frutti secchi ed esotici.
•  Le aldeidi,molto numerose, possono essere sgradevoli, come quelle insature o come l’aldeide valerianica, che conferisce note erbacee a volte troppo aggressive, oppure   piacevoli, come la siringica e l’aldeide acetica. Troviamo la medesima ambivalenza nei chetoni, non molto abbondanti ma portatori di percezioni grossolane, di note di burro.
•  A terpenie alle pirazine,che derivano dal frutto utilizzato (uva Moscato, uva Gewürztraminer, pera Williams), vanno attribuiti i profumi-aromi primari, cioè gli odori già presenti nel frutto in origine.


Maturazione e invecchiamento:
Le fasi di maturazione e invecchiamento sono importanti per tutti i tipi di distillato. Per quasi tutti i distillati è sufficiente riposare solo pochi mesi in acciaio o in vetro per poter sviluppare il migliore bouquet, che risulti complesso e poco aggressivo rispetto al momento della produzione. Essi evolvono poi rapidamente, per quanto vi siano prodotti che si mantengono, a volte migliorando organoletticamente, anche per decenni. Ma laddove predominano gli aromi primari e secondari, come nell’acquavite d’uva, la fragranza è piuttosto effimera e non resiste a lunghi periodi di invecchiamento. I prodotti che riposano in botti di legno ricavano da questo materiale varie sostanze, fra le quali sono da segnalare gli esteri e vari aromi. Nel distillato avvengono numerose reazioni che originano nuove sfumature aromatiche di spezie, miele, vaniglia, tabacco e frutta secca; la formazione di questi aromi è favorita anche dal contatto con l’aria. Il legno quindi influisce in modo notevole sull’invecchiamento dei distillati, e in modo differente in ragione del tipo di legno e della sua stagionatura ed eventuale tostatura, della dimensione della botte, del sistema di fabbricazione delle doghe (segate o a spacco), della durata dell’invecchiamento, della gradazione alcolica del distillato, della temperatura e dell’umidità dei locali, dell’altitudine, dell’ambiente. Purtroppo, spesso l’aromatizzazione è utilizzata per mascherare i difetti del distillato, ma è altrettanto vero che alcune Grappe e il Gin sono aromatici fin dalle loro origini; altre, come ad esempio la Vodka e altri tipi di Grappe, vengono addizionate di aromi all’inizio delle operazioni produttive. Questo tipo di operazione può avvenire per infusione di piante officinali prima della distillazione, e in questo caso esse possono macerare nel distillato; a volte la pianta è inserita persino nella bottiglia come decorazione. È possibile aromatizzare anche durante il processo di distillazione, nel qual caso si aromatizzano i vapori idroalcolici facendoli passare per filtri costituiti da erbe aromatiche. Si possono anche preparare a parte delle soluzioni, idroalcoliche o acquose, dove la pianta macera, poi viene cotta e infusa e infine aggiunta al distillato. è possibile, infine, ricorrere a complessi aromatici di origine industriale che saranno aggiunti prima dell’imbottigliamento. I distillati aromatizzati si trovano a metà strada fra i distillati e i liquori, da cui però differiscono per il contenuto zuccherino.
Degustazione dei distillati:
La degustazione dei distillati prevede la stessa sequenza che viene seguita per l’assaggio del vino. Tuttavia in questo caso si pone maggiore attenzione sulle percezioni gusto-olfattive, essendo meno importanti le valutazioni sul colore e tenendo conto della maggior quantità di alcol etilico e dell’alta concentrazione delle molecole odorose in esso disciolte. Si procederà quindi attraverso un esame visivo, uno olfattivo e uno gustativo.
Esame visivo: Per l’esame visivo,sono prese in considerazione la trasparenza, la tonalità e l’intensità del colore. Le operazioni volte a perseguire l’illimpidimento del distillato, comprese quelle velature eventualmente originate nel periodo dell’invecchiamento e durante le operazioni che hanno lo scopo di ridurre il grado alcolico, devono originare un distillato che è sempre perfettamente limpido; infatti, per quello che riguarda l’esame della limpidezza e del colore, che per molti distillati consumati giovani deve essere come l’acqua, non c’è la minima tolleranza. Tuttavia, i distillati invecchiati a lungo in botte assumono tonalità paglierine o ambrate, fino a sfumature verdi o rossicce. Valutazione diversa prevedono i distillati invecchiati in botti di legno (che acquisiscono un colore leggermente giallognolo, a volte tendente al paglierino) e, a maggior ragione, il colore dei distillati aromatizzati può essere assai vario, ma, in tal caso, l’aspetto è meno importante ai fini della valutazione qualitativa, essendo stato artificialmente modificato.
Esame olfattivo :

Assai più interessante è l’esame olfattivo. Esso è caratterizzato da inspirazioni brevi e profonde miranti a valutare l’intensità del profumo, che è ricco di sfumature, complesso fino a stancare rapidamente il degustatore, a causa dell’elevata concentrazione alcolica che provoca un’intensa azione pseudocalorica con effetto bruciante sulle mucose boccali. Questa elevata quantità di alcol comporta anche numerosi e forti fenomeni di mascheramento sui profumi e sugli aromi. Non si dimentichi che, mediante le olfazioni, viene aspirato anche alcol etilico, ragion per cui non è possibile mantenere la stessa “freschezza” per la degustazione di numerosi campioni. Ciò nonostante è possibile, con la competenza e l’attenzione adeguate, valutare la franchezza, la finezza, la complessità e l’equilibrio dei profumi; questa analisi offre i migliori risultati quando viene effettuata per via retronasale. Vi sono distillati che hanno profumo elegante e intenso, ma non complesso; viceversa altri distillati rivelano maggiori varietà di note floreali, fruttate o speziate che apportano complessità al distillato.
Esame gustativo: L’esame gustativo prevede di sorbire un sorso di 2-5 ml di distillato per poter percepire nettamente il sapore dolce e quello amaro; quest’ultimo, che non deve essere preponderante, è dovuto essenzialmente agli alcoli superiori, ai sali di rame, agli acidi propionico e butirrico e ad alcuni polifenoli acquisiti durante la fase d’invecchiamento nelle botti di legno, oltre che dalle eventuali sostanze aromatizzanti. La percezione dolce è esaltata dalla forte concentrazione alcolica, ma nel medesimo tempo l’etanolo induce una forte nota di pseudocalore che deprime la percezione del dolce. La salinità viene percepita solamente in alcuni Whisky, mentre negli altri distillati è quasi assente; l’alcol maschera in modo netto l’acidità. Tuttavia nella Grappa gli acidi volatili apportano una piacevole nota di freschezza e di corpo e contribuiscono all’armonia generale del distillato in oggetto, influendo anche sull’aspetto olfattivo.L’intensità del gusto è in ogni caso meno importante dell’armonia delle varie sostanze che influenzano le papille gustative; infine è bene valutare la persistenza gusto-olfattiva che può durare vari minuti. La valutazione delle percezioni retrolfattive è assai interessante: nella deglutizione, infatti, il distillato – grazie alla temperatura corporea e alla vasta superficie libera – aumenta l’evaporazione di tutte le sostanze odorose e di alcune in modo più accentuato; conseguentemente, queste ultime sono percepite in modo più spiccato rispetto all’olfazione diretta. Tutti i distillati, generalmente, arrecano una tenue percezione di ruvidezza causata dai polifenoli ceduti dal legno e dagli alcol superiori; l’effetto disidratante dell’etanolo favorisce tale percezione. Al termine della degustazione, occorre valutare l’equilibrio generale e l’armonia fra esame olfattivo ed esame gustativo
Tipi di bicchiere:Per la degustazione dei distillati, in genere, il bicchiere più adatto è il calice a tulipano: allungato e stretto, in cristallo, assolutamente trasparente, della capacità di 100-120 ml. In alternativa possono trovarsi altri bicchieri a tulipano un po’ differenti fra loro e specificatamente studiati per la degustazione dei singoli, diversi distillati. Il calice a tulipano, alto e stretto, consente di porre il naso alla corretta distanza dal distillato e ciò permette la migliore percezione degli odori con minore effetto mascherante da parte dell’alcol. Rispetto alla media dei bicchieri utilizzati per la degustazione dei distillati, per lo Scotch il bicchiere più consono è più chiuso, quello della Grappa più aperto. Le acquaviti ottenute dalla frutta e servite a temperatura molto bassa vanno degustate in un bicchiere dalla bocca stretta, che concentri i profumi: può essere adatto un balloon piccolo, o un tulipano panciuto nella parte centrale e più stretto nella parte bevente.
La giusta temperatura:
Certamente alcuni distillati vanno conservati al fresco, se non addirittura in frigorifero, fino al momento della degustazione, tuttavia la temperatura per la degustazione deve essere valutata caso per caso, in relazione alla complessità organolettica dei distillati; la soggettività spesso reclamata da alcuni “bevitori” non trova il corretto riscontro nella scienza della pratica degustativa. Tuttavia è pessima abitudine raffreddare troppo il distillato, così come qualunque altra bevanda, in quanto il freddo intenso provoca una sorta di anestesia delle papille gustative e inoltre non permette una sufficiente evaporazione dei vari componenti odorosi in bocca; si percepisce solamente il bruciore dell’alcol etilico e il freddo della bassa temperatura. In generale, comunque, il distillato giovane è degustato più correttamente alla temperatura di 8-10 °C, ma il distillato invecchiato rivela meglio le sue caratteristiche organolettiche alla temperatura di 15-18 °C. Ciò nonostante in USA, e ormai anche in Italia e un po’ ovunque, ricorre la moda di bere i distillati, e in particolare il Whisky, allungati con cubetti di ghiaccio oppure con soda (in Italia più conosciuta con il termine seltz); gli inglesi tollerano di allungare il Whisky con l’acqua pura, purché sia dolce, cioè non calcarea.

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10 Domande per Sommelier 07/02/2020

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