giovedì 8 febbraio 2018

Storia del pisco: dal Cile il nettare del sole






«In una sola goccia un milione di anni di sole»: così raccontava del pisco il poeta Pablo Neruda. Il pisco nasce ai tempi della colonizzazione spagnola con la trasmissione agli indigeni delle uve e delle conoscenze sul processo di distillazione. Sulle origini della parola pisco ci sono opinioni discordanti. Secondo alcuni deriva dal termine aborigeno pisquo, riferito al pajaro volador (un volatile): una metafora per descrivere gli effetti della bevanda su chi ne abusava. Secondo altri deriva da pisquillo, il contenitore di cuoio in cui si poneva il distillato. Questo prodotto ottenuto dalla distillazione di uve
Valle del Elqui
aromatiche (moscatel rosadas, de asturia e alejandria), trova vita in uno dei posti più secchi del mondo, a sud del deserto di Atacama. Piccoli fiumi cristallini che nascono dalle Ande ogni giorno bagnano e modellano una serie di valli, formate da terreni impervi dove il sole è presente 300 giorni all’anno ed imprime, alle uve che lì si coltivano, aromi e sapori particolari. Le uve, una volta raggiunto il giusto grado zuccherino, sono raccolte e fermentate: il vino ottenuto viene distillato in alambicchi di tipo discontinuo, e il prodotto riposerà in botti di quercia americana e raulì (una quercia tipica del Cile), dove, senza alterare la caratteristica aromatica primaria, si trasformerà rendendosi più soave al gusto. In genere il pisco è imbottigliato e messo in commercio
con differenti gradazioni: 30, 32 e 33 gradi per il tradicional; 35 per il tipo especial; 40 per il reservado; 43, 46 e 50 per il gran pisco. L’aspetto deve essere trasparente e brillante, o leggermente ambrato quando effettua un passaggio in botte (ma il colore ambrato non è condizione necessaria per qualificare il prodotto). Tra le marche cilene di qualità troviamo nelle varie gradazioni: il pisco capel, pisco bauzà ed il pisco tres cruces.

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