lunedì 19 giugno 2017

Il Nebbiolo una antica nobiltà




Sarà possibile che tutte le volte che si parla di grandi vini il pensiero corre esclusivamente a quelli prodotti con vitigni francesi? Per lo meno all’estero quando si cercano i riferimenti di grandi vini, oltre ai soliti francesi cui si accennava, si ricorda anche il nostro nebbiolo.
Padre di grandi vini, è uno dei vitigni a noi più invidiati per la capacità di generare prodotti di grandi emozioni. Il successo di questo vitigno, però, non è stato immediato. Fino al 1800 circa il nebbiolo dava origine a vini dolciastri, vittima delle basse temperature che interrompevano la fermentazione.
Nonostante tutto però, già allora,
quest’uva era circondata da sacra considerazione ed era decantata da poeti, locandieri e dall’immancabile Plinio il Vecchio, sempre presente nelle faccende vinose dell’impero Romano. Se tutti sono d’accordo sulla grandezza del vino, meno sono quelli che concordano sull’origine del nome del vitigno. È opinione diffusa che il riferimento sia alle nebbie che avvolgono i vigneti nel periodo di vendemmia che cade a metà ottobre perché trattasi di varietà tardiva. Altri, invece, pensano che il nome derivi dall’eccesso di pruina, sostanza cerosa che ricopre gli acini, e che gli dà l’aspetto biancastro simile alla bruma autunnale. 

L’originalità di questo vitigno non è solo data dalla produzione di vini meravigliosi, uno tra tutti il Barolo, ma anche per essere legato al territorio piemontese talmente tanto da non dare risultati soddisfacenti fuori dal suo comprensorio d’origine. È così che i terreni marnosi e calcarei di Barolo, Barbaresco e Alba gli donano complessità ed elegante equilibrio, mentre i terreni in zona Roero, a prevalenza sabbiosa, regalano morbidezza e femminilità. La svolta nella vita del nebbiolo la porta una donna. Nella metà del 1800, infatti, la Marchesa Giulietta Faletti di Barolo, stanca del vino rosso stucchevole, decise di chiamare Louis Oudart per fargli dare
un’occhiatina alle sue cantine.


L’enologo si trovava in Italia perché chiamato da Camillo Benso di Cavour, ma di fronte al fascino della marchesa non resistette e cominciò una serie di studi e confronti delle produzioni dell’epoca. Le sue conclusioni gli diedero modo di argomentare soluzioni che convinsero non solo Giulietta Faletti ma anche il conte di Cavour e il Re Vittorio Emanuele, che ristrutturò una sua tenuta per la produzione di questo nettare. Da lì in poi la storia vuole che il nebbiolo si conosca, si apprezzi e si ami in tutto il mondo. Questo vino è fonte di dissidi interni tra le due scuole di pensiero che vedono il nebbiolo diviso tra la botte grande e la barrique. I puristi affermano che il vero nebbiolo è quello fatto secondo tradizione, che significa lunghe macerazioni e quattro anni di maturazioni in botti grandi di rovere di Slavonia o in fusti di castagno.  Il pensiero moderno pretende un vino affinato velocemente in botti di rovere francese in modo che diventi meno ruvido e più
immediato nell’espressione. Questa divisione di opinioni si nota col calice in mano, dove il metodo tradizionale dà al vino una colorazione meno carica e di maggior trasparenza, che si contrappone alla notevole estrazione ottenuta dai modernisti.
Il nebbiolo possiede nomi diversi in base alle zone d’origine. Così potrete sentirlo chiamare “spanna”, “chiavennasca” o  “picoutener” a seconda se sarete nelle zone del Gattinara, della Valtellina, in Lombardia o in Valle d’Aosta. Non temete
però, perché a parte le piccole differenze territoriali e la mano dell’uomo che lo vinifica, con un bicchiere di nebbiolo di qual si voglia zona mai resterete delusi.

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